Due generazioni di soccorritori professionisti a confronto. Le loro esperienze e le aspettative future.
La professione del soccorritore ha assistito, in questi ultimi decenni, a una profonda e costante evoluzione. Sono cambiate le tecniche di intervento, è mutato l’approccio nei confronti dei pazienti e il percorso formativo è diventato particolarmente specializzato. Ce ne parlano in un’intervista Stefano Da Rin, 27 anni, soccorritore professionista da ottobre 2019 (foto sotto, in basso), e Gianni Gasparini, 56 anni, che ha iniziato come volontario nel 1992 ed è attivo come professionista da gennaio 1995.
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Come in molti ambiti, anche nel soccorso l’esperienza ha una grande rilevanza. Tuttavia è altrettanto importante una formazione sempre aggiornata ai nuovi parametri dei nostri giorni. Cosa ne pensate?
Stefano Da Rin (SDR). Trovo estremamente interessante lavorare con soccorritori che hanno tanta esperienza sotto molti punti di vista, anche semplicemente per quanto riguarda la conoscenza del territorio, dei luoghi, dei quartieri e delle vie. Lo stesso vale per la manualità: ci sono gesti e situazioni che necessitano di una continua ripetizione per poterli apprendere pienamente e applicarli su un paziente in una situazione d’urgenza. Inoltre, mi è capitato in diverse occasioni durante un’evacuazione complessa di un paziente, di collaborare con un soccorritore con parecchia esperienza in questo genere di interventi. Ricordo una volta in cui un paziente politraumatizzato doveva essere fissato, a causa della sua patologia, ed era a terra, nell’angolo di una stanza piccolissima. Non era semplice trovare una soluzione. Il soccorritore con più esperienza ha però avuto l’idea di collocare un lenzuolo sotto il paziente, riuscendo così a trascinarlo quel tanto che bastava per spostarlo da quell’angolo. In questo modo sono stati mantenuti inalterati i principi della fissazione del paziente, che sono fattori importantissimi.
Gianni Gasparini (GG). Devo ammettere che dopo molti anni di servizio, parte della teoria e di quello che si è imparato a scuola si tende a perderlo. Ma si guadagna in esperienza, nella visione generale dell’evento. Il bello del nostro lavoro è che gli interventi sono uno diverso dall’altro, ci sono molte variabili, le situazioni possono cambiare all’improvviso. In questo caso l’esperienza e l’aver già vissuto situazioni analoghe è un buon valore aggiunto. È importante inoltre collaborare con i giovani appena usciti da scuola. Anche da loro si può imparare. A livello tecnologico sono sicuramente molto più avanti, sono veloci e a loro agio con tutto ciò che è il digitale. Da poco è stato introdotto sulle ambulanze l’ambulance-pad, un dispositivo che permette di effettuare la gestione completamente elettronica di un intervento e la dimestichezza dei giovani si vede... Inoltre un giovane è fresco di scuola, di teoria, sa porre domande precise al paziente, attraverso i protocolli per quel determinato tipo di sintomatologia. E direi che conta anche moltissimo la reciproca fiducia e la collaborazione tra i soccorritori, indipendentemente dall’esperienza di ciascuno.
Perché avete deciso di fare i soccorritori? Avete degli esempi in famiglia che vi hanno spinto a fare questa scelta?
SDR. Io in famiglia non ho nessuno che abbia svolto una professione nel settore sanitario. Ho frequentato prima una scuola infermieri, ma non ero a mio agio a dover star chiuso tutto il giorno in una corsia d’ospedale. Per il mio temperamento è poco dinamico. Un paziente lo segui per una settimana intera, ad orari prestabiliti: alle 10:00 la consegna, alle 10:30 il giro visite, alle 14:00 i medicamenti e così via. Quello che apprezzo molto nel poter svolgere questa professione è che si arriva la mattina e non si sa come sarà la propria giornata. Può capitarti di soccorrere anziani, adulti o bambini, di effettuare un intervento di medicina o di traumatologia.
GG. Il mio è stato un percorso diverso. Dapprima ho fatto un apprendistato di falegname. Finita la scuola e dopo il militare, tramite una conoscenza ho iniziato a fare il soccorritore volontario in Croce Verde, quasi per scherzo. Tra l’altro un tempo entrare negli ospedali mi faceva star male. Non avrei mai pensato che a vent’anni sarei andato a fare il volontario in ambulanza. Ma poi ha cominciato a piacermi, ho avuto la possibilità di frequentare la scuola per diventare soccorritore ed ecco che sono ancora qua. Ma un consiglio che darei a un giovane che vuol fare questa professione è di intraprendere la strada che ha fatto Stefano: prima è meglio diplomarsi come infermiere e poi scegliere di fare il soccorritore. In questo modo si hanno più porte aperte durante la vita professionale futura. Aggiungo anche che ai miei tempi non c’era questa possibilità, invece oggi si può fare un “corso passerella” in accordo con il proprio ente di soccorso, che permette di avere una formazione integrativa.
Quali sono le differenze tra le professioni di infermiere e soccorritore?
SDR. L’infermiere e il soccorritore svolgono due professioni abbastanza diverse. Il paziente dell’infermiere è in un letto d’ospedale con una diagnosi. Noi soccorritori andiamo incontro all’ignoto, dobbiamo imparare le tecniche di evacuazione, gli infermieri no. Arriviamo nelle case, di giorno o di notte, in situazioni sempre diverse non sapendo cosa ha il paziente.
GG. Aver cura di un paziente in ospedale o fuori è diverso. Anche per un semplice mal di pancia: in ospedale si possono fare una serie di controlli per sapere cosa ha. Noi soccorritori possiamo intuire di quale patologia si tratta, andare per esclusione, però una diagnosi precisa non la possiamo fare: si può solo ridurre il dolore, trattare il sintomo. Durante un intervento c’è sempre un soccorritore che funge da “ leader” e che interagisce con il paziente.
Come viene scelto questo “soccorritore guida”?
GG. Durante un turno di servizio ci alterniamo. Una volta lui guida e io gestisco l’intervento e nella missione successiva si cambia, tocca a lui.
SDR. Può anche succedere che si conosca il paziente e che si preferisca cambiare il soccorritore guida. Oppure è lo stesso paziente che “decide” fin dall’inizio a chi rivolgersi e quindi in un certo senso è lui che lo stabilisce. Questo accade soprattutto nelle dinamiche psichiatriche dove il paziente riesce ad aprirsi di più con un certo soccorritore piuttosto che con un altro. Se poi c’è una donna nell’équipe di soccorso può essere più indicato che sia lei a dirigere un determinato tipo di intervento.
GG. Sovente il paziente psichiatrico appena ci vede può avere un approccio aggressivo. Allora è meglio fare un passo indietro e lasciare il ruolo di guida al collega. Anche mettere gli accessi venosi non sempre è facile, io provo una volta, poi chiedo al collega di farlo.
Gianni Gasparini, quali cambiamenti hai visto da quando hai iniziato il tuo percorso professionale?
GG. I cambiamenti sono stati moltissimi, dall’ambulanza intesa come veicolo, ai materiali che utilizziamo al suo interno, anche le semplici barelle, che al giorno d’oggi sono tutte elettriche. È cambiato il modo di lavorare, un tempo c’era più contatto con il paziente. Oggi noi lo vediamo per circa un’ora, dall’arrivo sul luogo dell’evento all’ospedale. Durante quest’ora, una volta avevi il tempo di entrare di più in relazione con il paziente. Oggi con tutto quello che dobbiamo fare, soprattutto a livello burocratico, hai molto meno tempo, anche solo scambiare due parole è diventato difficile. È cambiata anche la popolazione: la sua notevole crescita in termini numerici ha portato a un sensibile aumento del numero di interventi. È cambiata la tipologia di approccio “linguistico”. Un tempo tutti parlavamo in dialetto: ci si sentiva quasi in famiglia. E oggi quando entro in un’abitazione e c’è la possibilità di parlare in dialetto ticinese, mi fa sempre piacere e anche il paziente si sente più sicuro. Invece, in un contesto di popolazione multietnica com’è quello attuale, l’approccio può essere più difficile: a volte non si parla la sua lingua, non si conosce la sua cultura e la sua religione. Ma il grande cambiamento degli ultimi 20-30 anni è rappresentato dalla possibilità di somministrare cure medicalizzate anche in ambito preospedaliero. Prima l’ambulanza aveva piuttosto il compito di “trasportare” il paziente nel più breve tempo possibile in ospedale. Solo quando giungeva nella struttura sanitaria si iniziava a prendersi cura di lui. Oggi queste terapie iniziano al momento in cui arriviamo sul luogo dell’urgenza e l’ambulanza è un po’ intesa come l’estensione del reparto di cure intensive di un ospedale.
Alla scuola soccorritori sono previsti dei moduli formativi sulle diverse culture delle persone e su come poterle approcciare nel soccorso d’urgenza?
SDR. No, non mi risulta che esistano moduli simili. In effetti può capitare di avere a che fare con una paziente donna che non vuole essere toccata, oppure che non ti rivolge la parola e c’è il marito che fa da tramite. Sono sicuramente dinamiche che vediamo sempre più spesso. Purtroppo non è possibile “scegliere” l’équipe che ti arriva a casa. In ospedale può succedere che il paziente non voglia essere curato da un certo infermiere e chieda di farselo cambiare. In ambulanza no: “prendi quello che ti arriva”. E il nostro ruolo è quello di adattarsi a tutte le situazioni che troviamo. Ci è già capitato di essere fermati da un uomo che non vuole che soccorriamo sua moglie: in questo caso cerchiamo di mediare. Del resto non è sempre possibile avere una donna in equipaggio. E succede anche che pazienti uomini non vogliano farsi toccare da una donna per diversi motivi.
Qual è l’intervento che non dimenticherete mai? E quello dai risvolti più positivi?
GG. Un intervento che mi ha profondamente segnato risale al 1992. Era uno dei miei primi turni in ambulanza. Una volta giunto sul luogo dell’incidente stradale ho trovato un mio amico, morto. Al momento io non ho riconosciuto né lui né la sua auto, talmente era stato forte l’impatto contro un muro. A quei tempi non c’era ancora il debriefing dopo l’intervento, grazie al quale oggi riusciamo ad elaborare il prima possibile le esperienze traumatiche. Per quanto riguarda gli interventi piacevoli, trovo particolarmente gradevole avere a che fare con gli anziani. Spesso si possono scambiare anche due chiacchiere amabilmente, e magari strappare loro un sorriso. Per me vedere una persona che riesce a sorridere su una barella equivale quasi a fargli una terapia analgesica. A volte gli parli in dialetto, ti chiedono di dove sei, magari conoscevano la tua famiglia… E sempre a proposito di ricordi belli, una volta mentre aspettavo mia figlia davanti alla scuola mi è capitato di trovarmi accanto a una mamma che conoscevo di vista. Abbiamo iniziato a parlare e lei, a un certo punto, mi ha rivolto la classica domanda: “chissà cose ne vedete voi?... ma ti è mai capitato di soccorrere qualcuno che stava partorendo?”. “Sì” ho risposto io, “anni fa proprio qua in zona” e le ho raccontato alcuni dettagli di quel parto prematuro. E lei, con gli occhi spalancati, mi ha detto: “Ma ero io!”. Pensandoci bene, però, non è tanto quello che vediamo, ma piuttosto quello che sentiamo, che ti rimane dentro, quello che vediamo possono essere solo dei singoli flash. Nonostante le apparenze anche nel Luganese ci sono tante situazioni di solitudine, povertà ed emarginazione che sicuramente colpiscono molto noi soccorritori.
SDR. Personalmente non ho ancora un intervento che mi è rimasto nella memoria. Ma durante la fase acuta della pandemia da Covid mi ha particolarmente colpito il fatto che, quando andavamo a soccorrere delle persone, soprattutto anziane, eravamo abbastanza consapevoli che difficilmente sarebbero state dimesse dall’ospedale. Mi è rimasto impresso il rapporto tra i famigliari e queste persone, il loro salutarsi, probabilmente per l’ultima volta. Nella mia breve esperienza da soccorritore è stato questo che mi ha colpito di più: arrivare nelle case e vedere i famigliari del paziente che piangevano perché portavamo via il loro caro e non sapevano quanto tempo sarebbe rimasto in ospedale. Le classiche frasi… “ci vediamo quando torni”… dentro di me quasi speravo che si salutassero bene, perché sapevo che probabilmente questa persona non sarebbe più uscita dall’ospedale. Io, tra l’altro, ho iniziato a fare il soccorritore a ottobre del 2019, proprio pochi mesi prima dell’inizio della pandemia.
Cosa vi aspettate nel futuro dalla vostra professione, come potrà evolvere, migliorarsi…
SDR. Come tutte le professioni che riguardano la salute penso ci saranno sempre delle continue migliorie, soprattutto per quanto riguarda le tecnologie, le conoscenze. I nostri protocolli cambieranno in base alle future scoperte scientifiche, cambieranno probabilmente i medicamenti in base agli studi che si faranno, cambierà la burocrazia. Sicuramente mi piacerebbe avere maggior possibilità di entrare in relazione con il paziente, che come dicevamo prima ora vediamo per un’ora al massimo. Sarebbe opportuno concederci più tempo. In ospedale il paziente puoi seguirlo anche una settimana di fila, lo vedi ogni giorno, in ambulanza no.
GG. In ospedale tanti anni fa non c’erano i computer, adesso se vai all’Ospedale Civico e vedi 10 infermieri, 9 sono davanti a un computer. Oggi devono inserire tantissimi dati, controllare costantemente la pressione, saturazione, ... e penso che con il passare del tempo l’informatica avrà un ruolo sempre maggiore anche nella nostra professione.
Qual è il vostro rapporto con Dio, la morte, l’aldilà?
GG. Non sono molto credente, diciamo che lo sono un po’ a modo mio, non sono uno che la domenica va a messa, e dopo la morte chi lo sa, nessuno è mai tornato indietro per dire cosa c’è nell’aldilà.
SDR. Anch’io non lo sono molto, ma va bene che ci siano delle persone credenti, questo dà loro modo di potere iniziare a elaborare un lutto in caso di eventi tragici. Ho fatto la comunione e il battesimo, ma non ho mai praticato. Ma sono sollevato quando davanti a una morte un parente dice che si è reincarnato in qualcosa o qualcuno o che andrà in Paradiso. Penso che questo possa aiutarlo a superare un evento drammatico.
Consigliereste questa professione a un giovane?
GG. Facendo il percorso che ha fatto Stefano sicuramente sì. Vorrei sottolineare che svolgere questa professione fino a 65 anni non è semplice, sono pochi quelli che ci arrivano. È dura, sia a livello psichico che fisico. Ti consuma e ti logora, come si può immaginare. Nonostante questo la consiglio, è molto dinamica, non ti annoi, non sei chiuso in un ufficio. Inizio a lavorare alle sette e non so come sarà la giornata, cosa potrà succedere. Una volta terminata la scuola, consiglierei a un giovane di fare anche un’esperienza fuori cantone o all’estero, per vedere altre realtà. Questo è un piccolo rammarico che mi è rimasto, ma avendo finito tardi la scuola non ho avuto la possibilità di fare un’esperienza di questo tipo. All’estero ti confronti con altri modi di lavorare, poi puoi tornare in Ticino e portare anche dei benefici all’azienda in cui lavori. All’estero o anche solo nelle grandi città svizzere possono capitare interventi molto particolari che da noi avvengono di rado.
SDR. Anche io la consiglio assolutamente a tutti e non ho difficoltà ad ammettere che per me è la professione più bella del mondo. Ti permette di stare a contatto con le persone, spesso si è all’aria aperta (nel bene e nel male: con sole, pioggia, caldo, neve). Abbiamo la nostra indipendenza e autonomia, anche rispetto all’infermiere che svolge questo lavoro in ospedale. C’è anche la possibilità di guidare in urgenza... e a me piace molto guidare!