A colloquio con il dr. Romano Mauri, primario del reparto di cure intensive alla Clinica Moncucco.
Abbiamo incontrato il Dr. Romano Mauri, figura di riferimento nel campo delle cure d’urgenza, non solo a livello cantonale. Nel corso della sua carriera ha ricoperto incarichi di rilievo, tra cui Caposervizio per l’anestesia e le cure intense al Cardiocentro Ticino, Presidente di Croce Verde Lugano, della Fondazione Ticino Cuore e dello Swiss Resuscitation Council. È stato inoltre Direttore sanitario presso la base REGA Ticino e capoclinica per l’anestesia presso il prestigioso CHUV di Losanna.
Attualmente, il Dr. Mauri è Primario dell’Area Critica del Gruppo Ospedaliero Moncucco dove coordina un’organizzazione complessa e strutturata. Presso la sede di Moncucco sono attivi 7 letti di terapia intensiva riconosciuti dalla Società Svizzera di Medicina Intensiva, mentre alla Clinica Santa Chiara di Locarno sono disponibili 5 letti di cure intermedie. A Lugano, inoltre, il Gruppo dispone di ulteriori 4 letti di terapia intensiva attivabili in caso di emergenza.
Questi servizi rientrano nel Dipartimento di Area Critica, che riunisce i reparti di Anestesia, Pronto Soccorso e Cure Intense operativi sui due siti. Complessivamente, il Dipartimento può contare su un’équipe composta da 30 medici specialisti e circa 90 infermieri altamente qualificati.
Dr. Mauri, a prima vista il numero di letti disponibili in terapia intensiva potrebbe sembrare relativamente contenuto. Ma cosa significa, concretamente, disporre di un posto in terapia intensiva? Quali risorse e quale livello di personale qualificato sono necessari per garantire un’assistenza adeguata?
Disporre di un letto di terapia intensiva non è solo una questione di spazio fisico. Richiede un'infrastruttura complessa e un numero significativo di personale qualificato. Un paziente necessita di un monitoraggio costante e sofisticato: viene controllato attraverso parametri vitali, supportato da ventilatori polmonari avanzati e sottoposto a infusioni continue di farmaci tramite pompe specifiche. L'elemento più critico, tuttavia, è il personale. In questo contesto, la gestione di un paziente richiede almeno 1,3 infermieri per malato. In pratica, per garantire la copertura di 19 letti di terapia intensiva servono tra 40 e 50 infermieri con qualifiche specifiche. A questo si aggiunge la necessità di un medico ogni sei pazienti, attivo giorno e notte. Pertanto, la sfida maggiore nella gestione delle cure intensive non è solo logistica, ma soprattutto legata alla disponibilità di personale specializzato.
Ritiene che le risorse finanziarie e infrastrutturali attualmente a sua disposizione siano sufficienti per gestire in modo ottimale il reparto? Quali sono i principali ostacoli e come stabilite le strategie operative per il futuro?
La nostra Direzione ha sempre dimostrato un approccio lungimirante e responsabile, mettendo a disposizione tutte le risorse necessarie per garantire ai pazienti una presa a carico altamente professionale e in totale sicurezza.
La crescita costante dell’attività clinica comporta, inevitabilmente, momenti di forte pressione legati a picchi di occupazione, che monitoriamo con attenzione giorno per giorno. Questo ci permette di anticipare tempestivamente l’eventuale necessità di attivare uno o due letti supplementari in terapia intensiva. Tuttavia, ogni estensione della capacità deve essere valutata con grande cautela, tenendo conto dell’impatto in termini di risorse umane e costi.
Quando si pianificano strategie per i prossimi anni, è fondamentale valutare attentamente gli investimenti in nuove tecnologie. Recentemente, abbiamo lavorato per il riconoscimento delle cure intermedie alla Clinica Santa Chiara, preparando un dossier dettagliato con tutti i requisiti richiesti dalla Società Svizzera di Cure Intensive. Le decisioni sull’ampliamento dei posti letto di terapia intensiva seguono criteri rigorosi. Se l’occupazione dei letti supera l’84% per almeno sei mesi consecutivi, diventa necessario aumentare la capacità ricettiva. Le cure intermedie, che si collocano tra le cure generali e la terapia intensiva, offrono una soluzione flessibile, permettendo al personale di acquisire gradualmente competenze avanzate. Un letto aggiuntivo di terapia intensiva ha un costo significativo: tra 500.000 e 800.000 franchi all'anno, considerando anche il personale necessario.
La collaborazione con enti esterni come Croce Verde Lugano (CVL) gioca un ruolo cruciale nelle emergenze. Come valuta il rapporto di sinergia con i servizi di soccorso preospedaliero in generale?
Il rapporto con Croce Verde è sempre stato di stima reciproca e dialogo costante per creare i presupposti di una collaborazione che rispettasse le necessità e priorità di tutti.
L’accoglienza in Pronto Soccorso è immediata in modo tale da permettere a Croce Verde di ristabilire rapidamente il veicolo coinvolto per poter far fronte ad eventuali nuove urgenze. Abbiamo realizzato una zona di carico e scarico dedicata e protetta, progettata secondo le specifiche tecniche indicate da CVL. Si tratta di una struttura unica nel suo genere in Ticino, pensata per garantire efficienza, sicurezza e comfort anche nei momenti più critici.
Inoltre, l’esistenza di un protocollo condiviso ci permette di evitare il ricovero di malati per i quali non abbiamo le competenze necessarie ad assicurare il trattamento definitivo e che richiederebbe dei trasferimenti secondari in urgenza controproducenti per il malato e il sistema sanitario in generale. Abbiamo definito con chiarezza i casi in cui un paziente non deve essere trasportato presso la nostra struttura, ma indirizzato verso l’EOC. È il caso, ad esempio, dell’infarto miocardico acuto, per il quale il paziente viene condotto al Cardiocentro, o dell’ictus, che richiede l’intervento dello Stroke Unit dell’Ospedale Civico. Lo stesso vale per i pazienti politraumatizzati, che vengono affidati al Trauma Center del Civico, dove sono presenti le competenze specialistiche adeguate.
Mentre uno dei settori in cui la nostra Clinica ha scelto di investire in modo significativo è quello del trauma e delle fratture nell’anziano. Disponiamo del reparto di geriatria più ampio del Cantone, con 40 posti letto, e di un reparto di ortogeriatria riconosciuto dalla Società tedesca di traumatologia. Idealmente, un paziente anziano che subisce la frattura di un femore dovrebbe essere condotto presso la nostra struttura. Naturalmente, ogni persona ha il pieno diritto di scegliere di essere ricoverata in un’altra struttura e questo diritto deve essere sempre garantito.
Così come è considerato naturale affidare a centri specializzati come il Cardiocentro o il Trauma Center del Civico i pazienti colpiti da infarto o politrauma, sarebbe altrettanto logico indirizzare alla nostra Clinica i pazienti anziani con fratture, in considerazione delle competenze specifiche e dell’esperienza che abbiamo sviluppato in questo ambito.
Dal punto di vista della formazione, come valuta l’attuale sistema educativo e formativo per il personale medico in Svizzera? Ritiene che siano necessarie riforme o innovazioni?
In effetti, uno degli aspetti più critici riguarda senza dubbio la formazione dei nuovi medici. Oggi, chi ricopre il ruolo di medico-formatore raramente dispone di una preparazione didattica strutturata. La trasmissione del sapere si basa ancora troppo spesso sull’esperienza personale, senza un vero metodo pedagogico condiviso. Per garantire una formazione di qualità, sarebbe auspicabile un intervento istituzionale, anche attraverso un sostegno economico alle cliniche, che permetta di rafforzare il percorso dei medici assistenti e, al tempo stesso, di valorizzare concretamente il ruolo educativo dei formatori. Un altro tema che merita attenzione è la progressiva burocratizzazione della professione medica. Il tempo che oggi i medici sono costretti a dedicare a compiti amministrativi sottrae energie preziose al rapporto diretto con il paziente e alla qualità della cura. In questo senso, l’intelligenza artificiale potrebbe rappresentare uno strumento strategico, in grado di automatizzare una parte dei processi e ridurre il carico burocratico, restituendo ai medici tempo e attenzione da dedicare alla loro missione principale: prendersi cura della persona.
Ritengo che sia necessario ripensare in modo più moderno ed efficace sia la formazione che l’organizzazione del lavoro clinico, investendo nelle competenze e nelle tecnologie che possono realmente migliorare il sistema.
La crisi pandemica legata al Covid-19 ha segnato profondamente il funzionamento del sistema sanitario. Quali sono, a suo avviso, le principali lezioni apprese da quell’esperienza?
I due anni della pandemia sono stati un periodo di straordinaria intensità, sotto il profilo sia clinico che organizzativo. È stato un banco di prova durissimo, ma anche un’occasione in cui la nostra struttura ha saputo rispondere con prontezza, flessibilità ed efficacia.
In poche settimane siamo riusciti a riconvertire una struttura di 200 letti per accogliere pazienti affetti da una patologia allora sconosciuta e gravissima. Il primo paziente Covid in Svizzera è stato accolto proprio da noi alla Clinica Luganese. Durante il picco della crisi, siamo arrivati a disporre di 40 letti di terapia intensiva, un numero eccezionale per una realtà come la nostra.
Uno degli elementi che ha reso possibile questa risposta rapida è stata la struttura organizzativa snella della Clinica: come primario di cure intensive, ho una linea diretta con il direttore generale. Questa catena decisionale corta ha consentito interventi tempestivi e una gestione efficace dell’emergenza.
Se oggi dovessimo affrontare una nuova ondata legata a un virus respiratorio simile al Covid-19, saremmo certamente più preparati. La conoscenza acquisita, l’esperienza operativa e l’organizzazione rimodulabile ci permetterebbero di reagire con lucidità. Dagli attuali sette letti di terapia intensiva certificati e completamente equipaggiati, siamo in grado di estendere rapidamente la capacità a 11 letti, e, con ulteriori postazioni quasi pronte, fino a 19. Un aspetto che ancora oggi mi amareggia è il persistente scetticismo di una parte della popolazione riguardo alle misure adottate durante la pandemia. È frustrante vedere negata l’importanza della vaccinazione o minimizzati gli sforzi compiuti da chi era in prima linea, spesso in condizioni difficili e rischiose. Fortunatamente, la maggior parte dei cittadini ha dimostrato senso di responsabilità, contribuendo attivamente al contenimento del virus e al raggiungimento dell’immunità collettiva attraverso la vaccinazione.
L’esperienza del Covid-19 ci ha insegnato che, oltre alle competenze tecniche, servono coerenza, visione e fiducia nelle evidenze scientifiche, non solo nelle strutture sanitarie, ma anche nel rapporto tra istituzioni e popolazione.
Le innovazioni tecnologiche, e in particolare l’intelligenza artificiale, stanno rapidamente trasformando il campo sanitario. In che modo ritenete che l’IA stia già influenzando o possa in futuro impattare la pratica clinica nelle cure intensive?
L’intelligenza artificiale rappresenta sicuramente una frontiera promettente anche nel campo della medicina d’urgenza e delle cure intensive, ma siamo ancora in una fase di adattamento e sperimentazione. Di recente, un’azienda ci ha proposto di testare un sistema di IA nel Pronto Soccorso: il modello prendeva in considerazione circa 30 parametri di laboratorio e, sulla base di un sospetto clinico iniziale fornito dal medico, formulava un’ipotesi diagnostica.
Tuttavia, ci siamo rapidamente resi conto che questo approccio non si adattava bene al contesto del Pronto Soccorso, dove i pazienti arrivano con quadri clinici estremamente diversi e spesso indefiniti. L’IA tendeva a fornire risposte troppo uniformi, non riuscendo a cogliere la complessità e l’eterogeneità delle situazioni. Per questo motivo, abbiamo deciso di trasferire la sperimentazione nei reparti di degenza, dove l’ambito clinico è più circoscritto e i sospetti diagnostici sono già più mirati. In questo contesto, l’IA può contribuire in modo più efficace al supporto decisionale.
È probabile che, per il Pronto Soccorso, serva un’intelligenza artificiale più avanzata, in grado di integrare informazioni anamnestiche, sintomi soggettivi e segnali precoci, guidando così l’analisi in modo più dinamico e personalizzato. Dunque sì, l’IA è già tra noi, la stiamo utilizzando, ma va calibrata con attenzione in base ai contesti clinici.
Va detto, inoltre, che i processi di innovazione possono evolvere molto rapidamente. Quando abbiamo scelto di digitalizzare alcuni ambiti della nostra attività, in soli due anni siamo riusciti a digitalizzare completamente la sala operatoria, gli ambulatori, l’anestesia e le cure intensive. Lo stesso potrà accadere con l’intelligenza artificiale, a patto di saper scegliere – con competenza e senso critico – gli strumenti giusti per i contesti giusti.
Sappiamo di un progetto significativo legato all’umanizzazione delle cure, nei reparti delle cure intensive. Ce ne può parlare?
Certo, stiamo portando avanti un progetto che riteniamo di grande valore, volto a umanizzare il più possibile l’esperienza dei pazienti ricoverati in terapia intensiva. Abbiamo introdotto, nel tempo, tre elementi fondamentali.
Il primo è il diario del paziente. Quando una persona rimane intubata per un lungo periodo perde completamente la percezione di ciò che accade attorno a sé. In questo diario, ogni persona che lo assiste o lo visita, siano essi infermieri, medici o familiari, lascia un breve messaggio: può essere qualcosa di semplice come “oggi sono passato, ma dormivi. Ti ho salutato e ti ho tenuto la mano.” Questi frammenti di vita quotidiana, di attenzione e di affetto, vengono poi raccolti e riconsegnati alla famiglia del paziente tre mesi dopo, se la persona sopravvive, oppure un mese dopo, nel caso in cui non ce la faccia. È un modo per ricostruire un tempo sospeso, restituendo senso e memoria a un periodo che altrimenti rimarrebbe vuoto.
Il secondo elemento riguarda il contatto con l’esterno. Quando le condizioni lo permettono, portiamo i pazienti all’aria aperta, anche solo per pochi minuti. Uscire dalla stanza di terapia intensiva, sentire il sole sulla pelle, respirare l’aria fresca e i profumi della natura: sono piccoli gesti che hanno un impatto emotivo enorme, sia sul paziente sia sul personale.
Infine, abbiamo introdotto l’aromaterapia, utilizzando oli essenziali all’interno delle stanze, selezionati in base allo stato emotivo e clinico del paziente. Alcuni oli hanno effetti rilassanti, altri possono aiutare a gestire l’ansia, l’agitazione o anche il senso di dipendenza. Si tratta di un approccio già sperimentato anche in altre realtà avanzate, come l’Ospedale di Coira e l’Inselspital di Berna.
Qual è la sua valutazione complessiva del sistema sanitario in Svizzera? In quali ambiti il nostro sistema si distingue per eccellenza e in quali aree vede margini di miglioramento?
Il sistema sanitario svizzero è, sotto molti aspetti, altamente performante. È efficiente, tecnologicamente avanzato e offre una qualità delle cure molto elevata, soprattutto nei casi acuti. Tuttavia, non è esente da margini di miglioramento, in particolare sul fronte della gestione delle risorse e della burocrazia.
Uno degli aspetti più critici riguarda gli sprechi quotidiani, che continuano a gravare sui costi del sistema. Serve maggiore rigore nella spesa pubblica e, parallelamente, un lavoro educativo più incisivo, sia verso i professionisti della salute sia verso i cittadini, affinché tutti acquisiscano maggiore consapevolezza sull’uso appropriato dei servizi sanitari.
Un altro ambito che richiede attenzione è quello della burocratizzazione eccessiva, che rischia di rallentare i processi e di allontanare i professionisti dal loro compito primario: prendersi cura delle persone. Inoltre, credo sia fondamentale rafforzare una medicina basata sull’evidenza scientifica. Persistono ancora pratiche che mancano di fondamento scientifico solido, e questo è motivo di preoccupazione. Ritengo sia poco etico non valorizzare pienamente i risultati della ricerca, soprattutto se si considera che molte persone si sono sottoposte a studi clinici, talvolta anche correndo dei rischi, per offrire un contributo alla conoscenza medica. Ignorare o sottoutilizzare questi risultati significa mancare di rispetto sia verso i pazienti sia verso la scienza.
Per continuare a garantire l’eccellenza del nostro sistema sanitario, è necessario quindi agire su più livelli: efficienza, sostenibilità, semplificazione amministrativa e rigore scientifico. Solo così potremo affrontare le sfide future con responsabilità e coerenza.
Lavorare quotidianamente in un contesto di urgenza sanitaria può avere un impatto profondo sia a livello emotivo che psicologico. Quali strategie adotta per ‘staccare’ e mantenere un equilibrio tra le pressioni del lavoro e la vita privata?
Più che l’urgenza sanitaria in sé, ciò che colpisce profondamente è il carico emotivo legato ai vissuti dei pazienti e delle loro famiglie. Ogni situazione porta con sé una storia, talvolta drammatica, e come professionisti della salute non possiamo restare indifferenti. Il coinvolgimento emotivo è inevitabile e, in un certo senso, anche necessario per mantenere viva l’umanità del nostro lavoro. In questo contesto, la squadra gioca un ruolo centrale. La presenza di un team coeso, fondato sulla sinergia, sul rispetto reciproco e su obiettivi chiari e condivisi, è una delle risorse più preziose per affrontare lo stress e sostenersi a vicenda. Il supporto tra colleghi aiuta a elaborare le esperienze difficili e a non sentirsi mai soli, anche nei momenti più complessi.
Oltre al lavoro di gruppo, ognuno trova poi le proprie strategie personali per ristabilire l’equilibrio interiore, che è essenziale per affrontare con serenità la quotidianità.
Nel mio caso, la musica è una via di espressione e rigenerazione fondamentale. Suono attivamente musica classica nell’Orchestra Arcadia, una realtà non professionistica ticinese di grande valore umano e culturale. È un’esperienza che mi consente di ritrovare concentrazione, armonia e bellezza – tutte dimensioni che, a modo loro, contribuiscono anche alla qualità del mio lavoro in ambito sanitario.
Infine, se avesse l’opportunità di rivolgersi a un responsabile politico, quale tema affronterebbe e perché? Quale aspetto critico del sistema sanitario ritenete meriti maggiore attenzione e intervento da parte delle istituzioni?
Uno dei principali nodi critici del nostro sistema è la frammentazione dell’offerta sanitaria, che spesso genera duplicazioni di servizi, dispersione di risorse e una minore efficacia complessiva. È necessario incentivare una pianificazione più razionale e integrata tra le diverse strutture, affinché ciascuna possa specializzarsi in determinati ambiti e garantire standard elevati di cura.
Un esempio virtuoso in questa direzione è rappresentato dalla collaborazione tra l’Ospedale La Carità di Locarno e la Clinica Santa Chiara, dove l’attività ostetrica e quella di ginecologia operativa sono state suddivise tra le due strutture. Questa scelta ha permesso di concentrare casistiche, aumentare l’esperienza degli operatori e migliorare la qualità complessiva delle prestazioni, tutto a vantaggio dei pazienti.
Un sistema sanitario moderno ed efficiente deve saper superare logiche di concorrenza interna e puntare sulla complementarietà e sulla sinergia, mettendo davvero al centro il bene del cittadino.