Intervista al cap Giovanni Capoferri della Polizia cantonale

 foto Giovanni Capoferri

 Il Capitano della Polizia cantonale regione luganese si racconta, dopo quarantatré anni di servizio.

Com’è cambiato il ruolo delle forze dell’ordine in questi ultimi decenni? Quale tipo di partnership lega i soccorritori di Croce Verde Lugano agli agenti di polizia una volta che giungono sul luogo di un incidente o un crimine? Come vengono superati i momenti di forte stress emotivo? Lo racconta Giovanni Capoferri, capitano della Polizia cantonale regione luganese, alla luce dei suoi 43 anni di servizio.

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Perché ha scelto di diventare agente di polizia? Ha avuto qualche esempio in famiglia o è una scelta maturata da un episodio particolare?

Tutto è nato per caso. La mia idea iniziale era quella di diventare ingegnere agronomo, provengo dal ceto rurale del Mendrisiotto. Mio padre aveva un’azienda agricola a Novazzano e la passione che ho per la terra è tuttora molto presente e viva. Io e mio fratello abbiamo ancora quell’attività, che nel tempo è stata trasformata in parte in azienda vitivinicola. A quei tempi l’influenza dei genitori era forte, dovevi fare un po’ quello che volevano loro. Mia madre in modo particolare desiderava che io trovassi un impiego sicuro con stipendio fisso. Nel Mendrisiotto i giovani andavano a lavorare in ferrovia, in dogana o in Polizia. Un amico di famiglia era Ispettore di Polizia Giudiziaria e un giorno mi ha fatto avere il bando di concorso per entrare nella scuola della Polizia. Ho partecipato alla selezione, è andata bene e così nel 1979 ho iniziato a frequentare la scuola. Mio fratello invece ha scelto di entrare in ferrovia.

Come si è evoluta un’istituzione ultracentenaria come la Polizia, e lei quali cambiamenti ha vissuto?

Naturalmente si è evoluta moltissimo. Quando ho cominciato usavamo le macchine per scrivere meccaniche e facevamo i rapporti di polizia in sei copie con la carta carbone: ora invece è tutto su supporto elettronico. Anche la criminalità è cambiata. Ricordo le rapine cruente che avvenivano negli uffici postali e nelle banche, dove venivano presi anche degli ostaggi. Oggi invece grazie anche al cambiamento strutturale della sicurezza questi reati non avvengono più.

Cosa le ha dato la Polizia durante i suoi 43 anni di servizio?

Mi ha dato tantissimo, mi ha dato tutto. Lo dico sempre anche ai giovani che iniziano: la professione dell’agente di polizia, per me, è la più bella del mondo. Non è mai monotona, inizi un turno e non sai cosa ti succede. E mi ha dato la possibilità di conoscere moltissime persone. Ho avuto anche la fortuna di fare una certa carriera, da gendarme sono arrivato al grado ufficiale di capitano.

Parliamo del suo rapporto con i soccorritori di Croce Verde Lugano. Cosa ricorda di questa collaborazione?

Devo dire innanzitutto che ho sempre avuto un ottimo rapporto con tutti i partner delle luci blu, Polizia, Servizi ambulanza e 144, Pompieri. Un ricordo particolare che ho con la Croce Verde di Lugano è un incidente mortale avvenuto a Taverne una decina di anni fa. Un motociclista, che era frontaliere, era finito sotto un autocarro. Sono arrivato sul posto con il responsabile di Croce Verde, Filippo Tami, e abbiamo preso la decisione di fare l’annuncio ai familiari qui in ufficio, perché venivano da oltre confine. Sono arrivati quindi i familiari e tra questi c’era una signora incinta. Al che ho pensato: “Se questa è la moglie come facciamo a dirglielo?”. Ho quindi chiamato Tami e lui ha fatto venire in ufficio la dottoressa presente sull’intervento della persona deceduta, insieme al dottor Savary, allora direttore sanitario di Croce Verde. Fatto sta che mentre diamo la triste notizia cominciano le doglie. Dopo esserci consultati tra di noi, abbiamo deciso di far trasportare la donna con un’ambulanza di CVL all’Ospedale di Varese. Lì però non volevano riceverla, anche perché stava sopraggiungendo la sera. Allora ho telefonato all’Ospedale e ho parlato con il direttore, dicendo che avrei fatto intervenire i carabinieri se non avessero accettato la paziente. Alla fine è stata ricoverata in quella struttura. Con questa signora siamo rimasti in contatto anche successivamente, perché quando succede un incidente mortale solitamente l’incarto dura un anno per via delle procedure. Mi ricordo che il marito aveva anche un’assicurazione sulla vita e lei ha fatto molta fatica a disbrigarsi fra tutte le procedure burocratiche. Io, tramite i sindacati dell’OCST le ho dato una mano. L’anno dopo è venuta a trovarmi con la bambina: e questa è stata una cosa molto emozionante. Con la CVL c’è sempre stato un ottimo rapporto, non solo con Tami (direttore) e Ziella (capo servizio) ma con tutti. Allo stesso modo, quando ero a Mendrisio ho sempre avuto un buon rapporto con il Servizio Autoambulanza del Mendrisiotto. Le buone relazioni possono sicuramente facilitare il lavoro nelle situazioni più delicate.

La possibilità di prendere parte a un debriefing è qualcosa di abbastanza recente... Sì, ed è decisamente molto utile in certe circostanze. Ricordo un intervenuto a Melano, agli inizi degli anni Duemila. Ero capoposto a Mendrisio e una domenica pomeriggio siamo intervenuti in una villetta. Abbiamo trovato i genitori e i due figli morti: il padre aveva fatto una strage. A quel tempo non c’era nessuna possibilità di fare un debriefing e mi capita ancora di rivedere il figlio deceduto tra la cucina e la sala. Mi ha impressionato perché all’epoca aveva l’età di mio figlio.

La polizia cantonale ticinese è stata la prima in Svizzera ad aderire al progetto della Fondazione Ticino Cuore sulla rianimazione e defibrillazione precoce. È divenuta così un esempio e un modello per tutto il nostro Paese e non solo. Come viene vissuta da voi questa esperienza?

Devo dire che in polizia sono stato un po’ il promotore. Ho sempre visto di buon occhio le novità e quando è stato presentato il progetto Ticino Cuore l’allora comandante Piazzini mi ha chiamato e mi ha detto: “Cominciamo da te”. Così abbiamo iniziato a Noranco a dotarci di defibrillatori portatili e ad intervenire in caso di allarmi DAE. Era per me un progetto veramente innovativo che poteva permettere di salvare molte persone. L’intervento per un allarme a causa di un arresto cardiaco per noi è importante tanto quanto un “nostro” allarme. Gli agenti lo fanno con coinvolgimento perché sanno che il loro supporto può essere vitale.

Lei è anche presidente del Carnevale Rabadan di Bellinzona, una passione per questo tipo di manifestazioni che ha sempre avuto.

Sì la passione me l’ha trasmessa mia mamma. Ai tempi non c’erano molti divertimenti ed era un evento che soprattutto nei piccoli paesi si viveva molto intensamente. Nel 2013 un collega con cui ho fatto la formazione dei gruppi speciali mi ha detto: “Ho assunto la responsabilità della sicurezza del Carnevale Rabadan, ti va di darmi una mano? Ho accettato ed è iniziata questa collaborazione. Quando poi lui ha smesso l’allora presidente Bixio Caprara mi ha chiesto se volevo prendere il suo posto. Sono così stato responsabile della sicurezza fino al 2020 e poi quando il presidente Petraglio ha lasciato l’incarico, i membri del comitato mi hanno proposto di accettare la Presidenza. Ci ho pensato un po’ e poi ho detto sì. Ma non è un impegno da poco: dopo il festival di Locarno questo carnevale è la manifestazione più importante del cantone. È come partecipazione di pubblico, è il terzo carnevale della Svizzera. Organizzare la sicurezza per il Carnevale Rabadan è un grande impegno. Tutta la macchina organizzativa è stata messa a punto dall’ex capo gendarmeria Cavallini e in questo contesto si è iniziato ad elaborare un apparato di sicurezza importante. Basti pensare che alla sera, quando i visitatori sono 20’000 - 30’000, vengono impiegati fino a 100 agenti.

La collaborazione con i soccorritori all’arrivo su una scena del crimine…

I soccorritori sanno come comportarsi, glielo insegnano a scuola. Mi sembra che ci sia qualche ora di formazione anche con noi. È chiaro che quando i soccorritori intervengono su una scena del crimine la loro priorità è salvare la vita, questo noi lo sappiamo. Bisogna fare attenzione a non spostare le cose. Se intervengono assieme, gli agenti fissano subito l’immagine della situazione. Ma anche i soccorritori sanno che devono collaborare e devono informarci su come hanno trovato la scena dell’evento. Anche a livello assicurativo è importante sapere, ad esempio, se si indossava un casco o se le cinture erano allacciate.

Rispetto a quando lei ha iniziato, è cambiato il dialogo con la gente comune?

Sì, tantissimo. Oggi non c’è più rispetto per la figura dell’agente di polizia. Un tempo, quando avevamo ancora la divisa marrone ed arrivavamo su un luogo di un fatto era diverso. Gli agenti vengono addirittura insultati. Penso sia un cambiamento generale di rapporto nei confronti delle istituzioni. Sappiamo che anche i soccorritori a volte hanno delle difficoltà. Oggi la gente non riconosce più la figura dell’agente. Questa maleducazione la vediamo in particolare nei giovani, tutti i venerdì e i sabato sera, sotto l’effetto dell’alcool e di certe sostanze. Ma ci sono anche persone di una certa età che non hanno rispetto. Adesso alla minima cosa che fai sei sui social, probabilmente questo ha portato la gente ad essere più maleducata. A Noranco abbiamo iniziato il progetto delle bodycam, anche con un supporto legale. Questo potrebbe portare le persone a fare attenzione: non si potrà più dire l’agente mi ha trattato male, mi ha dato una sberla, mi ha picchiato. È un peccato che si sia dovuto arrivare a questo, ma in altre nazioni è già in vigore: in Belgio, Olanda, Stati Uniti gli agenti si sono già dotati di questi mezzi. È anche vero che non tutte le persone sono così. Ci arrivano anche dei complimenti perché comunque molte persone capiscono che noi siamo lì per proteggere, per far funzionare un sistema, per dare una mano.

La Legge cantonale che regola il rapporto tra le varie polizie è ancora attuale?

Io sono a favore di integrare la polizia in un unico corpo, perché oggi come oggi abbiamo la medesima divisa, l’unica cosa che ci distingue sono le mostrine dove è scritto polizia cantonale e polizia comunale città di Lugano. Si fa già la medesima scuola. È chiaro che i comuni vogliono avere la propria polizia con una certa autonomia. Non sarà subito ma il futuro lo vedo lì, con una polizia unica in un’unica direzione cantonale. Penso anche che ci sarebbe una forma di risparmio importante. Ci vorrà poi anche una figura a livello comunale che faccia dei servizi perché è impensabile che un agente di polizia vada a chiudere il cimitero o il parco Ciani. Bisogna creare delle figure, come gli assistenti di polizia che fanno certi lavori, gestiscono il traffico, o svolgono certi compiti comunali.

Ma c’è anche una certa competizione tra polizia cantonale e polizia comunale? Come si vede nei film quando arriva l’FBI e toglie il mandato agli agenti di zona?

È così. Peccato che quando succede un incidente arriva la comunale e poi dobbiamo continuare noi della cantonale. La gestione delle pattuglie è fatto a livello cantonale dalla centrale CECAL. Se in corso Elvezia a Lugano succede un incidente, la CECAL invia subito una pattuglia di solito della città di Lugano. Ma se è un incidente con feriti, allora deve intervenire la cantonale. C’è una differenza di competenza. Una volta la gente lo capiva anche perché c’era la divisa diversa, adesso la gente lo capisce un po’ meno perché siamo vestiti uguali, non sta a guardare se la nostra mostrina è rossa o blu. Ma per avere tutti le medesime competenze bisognerebbe essere tutti sotto il medesimo cappello.

Paura, emozioni: quali riflessioni le suscitano queste parole?

La paura e le emozioni, bisogna saperle gestire e lasciarle da parte in certi momenti, la paura impone una certa prudenza… Io dico che non aver paura è un po’ da incoscienti e nel nostro lavoro essere incoscienti può essere pericoloso. La paura porta anche a riflettere su come agire e questo è importante. Non bisogna vergognarsi di riconoscere la propria paura ma devi saperla vincere, perché un poliziotto che ha paura e che si ferma non esiste.

A fine anno andrà in pensione... fine dell’adrenalina. Ha paura di questo vuoto?

No, non ho paura, mio figlio medico mi dice che non saprò stare fermo: “Sei sempre stato abituato a girare a mille”. Ho comunque la fortuna di avere l’azienda vitivinicola che richiede un certo impegno e come detto prima mi occupo della presidenza del Rabadan. Mia moglie mi dice: “Se prima ti vedevo poco, mi sa che poi ti vedrò anche meno”. Di hobby veri e propri non ne ho. Ho la passione di andare a cavallo e questa è un’attività che voglio riprendere. Forse inizierò ad andare in palestra. A parte qualche acciacco ho ancora la fortuna di stare abbastanza bene. So che mi mancherà l’attività lavorativa. Ormai è la ruota che gira, penso che bisogna prepararsi alla pensione. Non ho mai pensato di arrivare all’ultimo momento e staccare la spina perché per me la cosa peggiore è che a un certo punto devi andare, sei obbligato… Ho scelto io di andare in pensione, anche se avrei potuto continuare ancora per due anni: ho compiuto i 63 anni il 10 di ottobre.

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